Autoritratto, 2020.
2'36'' single channelled video.
La prima cosa che chiedo all’immagine fotografica del mio autoritratto è di mostrare la mia identità di genere. Di che genere sono e come ve ne accorgerete? Qual è il tratto visivo attraverso cui mi riconoscerete donna? Cosa rende un corpo riconducibile ad un’identità femminile in un’immagine? Fosse, quella dell’identità di genere, un’ autoproclamazione da dichiarare all’inizio, come ve ne accorgereste?
Con l’occhio. Direste voi.
Quale occhio? Con l’occhio privo di desiderio verso il sole e verso la donna, l’occhio maschile della filosofia occidentale, senza o con desiderio verso il corpo femminile ma non verso Elios. Per paura che il sensore bruci. Per paura che lo schermo che proietta, il calcolatore di forme, non riesca più a vedere. E’ la metafora della caverna di Platone: della realtà, riusciamo a vedere solo delle sagome proiettate dalla luce di un fuoco all’interno di una caverna buia.
‘Trovare un’economia della luce senza restare abbagliati e rischiare la combustione’, questa è la sfida della comprensione visiva occidentale. Questo è il passo che fa entrare nella filosofia, che fa rimanere sani, che eleva a condizione di filosofi e che fa entrare forse nella purezza più pura di esseri umani, tutti rigorosamente maschi. Nella caverna, nella camera oscura, nell’utero della terra e forse della donna, si possono contemplare le forme. Qual è la mia forma? La forma di donna? E, come donna, anche io sono ammessa all’interno della caverna di Platone, del mio utero?
Qual è lo sguardo che si posa su di me, il mio sguardo che si posa sul mio corpo alla luce della caverna? Come rappresentare il mondo al di fuori, o al di dentro della caverna (dall’interno del mio utero) utilizzando solo le ombre delle forme che ne impediscono il passaggio di luce?
Ma voglio vedere la luce o le ombre? La donna è luce o ombra? La mia fotografia è luce o ombra? La mia immagine fotografica è corrispondente alla forma di me che ne impedisce il passaggio di luce? O la sua riflessione? La volontà della mia fotografia è forse quella di descrivere la realtà attraverso delle forme/ombre create dal non lasciar passare la luce? L’incontro diretto con la luce sembrerebbe troppo spaventoso per la filosofia occidentale, forse anche per la visione. Meglio lasciar perdere! ‘La prossimità accecante della luce viene in altro modo evitata fissando l’attenzione unicamente sulle forme’, che sono le ombre delle cose nella caverna, nella camera oscura. Esse vengono fatte corrispondere, vengono ricalcolate, con la loro ‘iscrizione ideale nella psiuchè’: La mente ricalcola ciò che l’occhio vede e tramite una comprensione profonda non meglio definita, ne deduce gli enti del mondo ideale, sempre astratto e sempre maschile.
Luce e ragione sono legate da una metafora che le rende equivalenti. La luce così osservata, quella che attraversa schermi, lenti e specchi, diviene una luce che illumina in maniera esatta le cose, dandogli il giusto peso, il giusto valore, non è mai troppa e non è mai poca. E’ ‘l’eterna esattezza di ciò che è stato visto bene, correttamente percepito’ a fare da base teorica alla nostra visione complessiva del mondo, alla nostra comprensione. L’episteme, la verità, la si comincia a misurare proprio a partire da quelle ombre, che una luce equilibrata, posata, su uno schermo ha disvelato.
Fossi matta a guardarmi senza specchi e senza lenti attraverso la luce solare! Non riuscirei più a vedere, a capire, a conoscere, nell’occhio e solo nell’occhio si trova la Korè, ‘che riflette con la massima purezza’, ma a condizione di utilizzare una luce controllata che può svelare il mondo e noi stessi. Ed ecco che la visione, seppur con mille imperfezioni e parzialità, viene eletta come miglior organo di conoscenza. Come posso comprendere me stessa, posare il mio sguardo su di me se la luce con cui mi illumino è troppa o troppo poca? Di certo devo essere misurata.
La luce del sole, figlio della terra madre, è inappropriato per l'aletheia, la verità, il logos del padre, che è equilibrato, misurato ed armonioso e conosce il mondo non nella sua interezza ma attraverso la scomposizione dell’essere in ente. E tramite la vista non già scevra da canoni, regole e strutture dovrei arrivare alla verità, alla rappresentazione della verità, e in questa rappresentazione dovrei riconoscermi donna, attraverso la mia immagine dovrei riconoscermi per ciò che dico di voler autodefinirmi come donna.
La rappresentazione visiva di me, l’unica possibile, deve avvenire secondo delle regole, dei canoni di rappresentazione già stabiliti. Come posso inserirmi in una tradizione parlando una lingua diversa?
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